Uomini
di ferro
«Bagnoli è sterminata; un impero, uno dei
tanti, della pura materia e della pura potenza. Cos'altro, ormai, possiamo
creare? »
Guido
Ceronetti
«Rosa’, quassù il vento tira assai forte eh?»
disse Ernesto sfregandosi le mani.
«E
che ti aspettavi? Hai capito a che altezza stiamo?»
La
prima brezza invernale si scagliava contro i piloni di ferro arrugginiti e
sembrava lamentarsi della loro presenza. Di fronte, il mare che schiumava
nervoso contro Nisida. E oltre, nascoste dalla foschia, Procida e Ischia, che
apparivano indifferenti alle rimostranze della natura. Sulla destra quel che
rimaneva dell’Italsider, la grande fabbrica che per decenni aveva dato loro da
vivere e che ora non esisteva più. Svanita, da un giorno all’altro. Anzi,
sottratta. È questo che pensavano Rosario e gli altri. La fabbrica gli era
stata rubata.
E
a loro non era rimasto null’altro che qualche vecchio pilastro a ricordo della
grandezza che fu.
«Rosa’?»
chiese ancora Ernesto.
«Eh?»
rispose spazientito quest’ultimo.
«Ma
mo’ che arrivano i pezzi grossi parli
tu?»
Rosario
si girò a guardare il compagno di tante lotte. Quest’ultimo indossava un
cappellino di lana infeltrito che gli rendeva il viso ancora più piccolo. Un
volto scavato dalle rughe e ricoperto di peli bianchi. A Rosario sfuggì un
sorriso.
«Che
c’hai da ridere?»
«Sembri
un pescatore Erne’?»
«Un
pescatore?»
«Eh,
ti manca solo il peschereccio…»
«Rosa’,
che capa fresca che c’hai!»
Rosario
non rispose. Ernesto davvero assomiglia a un vecchio pescatore. Aveva solo cinquantacinque
anni, ma ne dimostrava il doppio. Era la miseria, pensò Rosario, quella ti si
abbarbica sul volto e non ti lascia più, hai voglia a sciacquarti ogni mattina,
non c’è nulla da fare. Chissà se era presente anche sul suo viso. Meglio non
pensarci, meglio ripassare il discorso da fare al Sindaco. Perché sarebbe
arrivato, di questo Rosario era certo. Altrimenti non se ne sarebbero andati.
Non stavolta. A costo di dover restare tutto il mese su quella dannata gru.
«Ci
parlo io con quella gente, Erne’, non ti preoccupare.»
«Grazie
Rosa’. Lo sai, io sono ansioso, m’imbarazzo.»
«Lo
so, Erne’, lo so.»
Era
vero. Rosario sapeva tutto di Ernesto. Si conoscevano da trent’anni.
Era il millenovecentottantadue quando Rosario
era entrato in fabbrica per la prima volta. Lì aveva incontrato l’amico, di un
anno più grande. E lì erano stati, uno di fianco all’altro, per un decennio,
fino al novantadue, quando lo stabilimento, nonostante la loro battaglia, aveva
chiuso definitivamente. Ora, dove un tempo c’erano le colate, cresceva l’erba.
«Rosa’,
ti ricordi l’anno scorso, quando ci menammo
a mare? Che casino combinammo eh?»
Rosario
guardò dritto dinanzi a sé. Un traghetto in lontananza sfidava le onde pur di
compiere il suo compito quotidiano. Anche loro, per anni, avevano sfidato le
intemperie pur di lavorare. E continuavano, ancora oggi, imperterriti.
«E
come no. Vennero pure le televisioni.»
«Ti
ricordi come si incazzarono?»
In
effetti quel giorno fecero un gran casino. Erano una trentina, si gettarono in
acqua con lo scopo di bloccare i vaporetti per le isole. E ci riuscirono. Tante
persone ignare, che desideravano solo tornare a casa dopo una giornata di mare,
furono costretti a conoscere la situazione degli ex operai dell’Italsider,
estromessi finanche dalla dismissione, affidata ad aziende e operai del nord.
Quel giorno, sulla banchina, fu promesso ai lavoratori che le cose sarebbero
cambiate, che sarebbe stato trovato loro un impiego presso altre ditte.
Promesse,
nulla più. Come da vent’anni a questa parte. Una vita spesa nell’illusione di
poter tornare a fare quello che sapevano fare.
Rosario era l’ultimo di dieci figli, sette
maschi e tre femmine. Tutti impiegati all’Italsider. Tutti operai. E tutti
comunisti. Come prima di loro, il padre e il nonno. D’altronde, all’epoca,
Bagnoli era tutta rossa. Anche la madre di Rosario era comunista, come le altre
donne del rione, costrette ad abbandonare i fornelli per scendere in strada, al
fianco dei loro mariti, e obbligate a condividere l’ansia dei loro uomini per la
perdita del posto di lavoro.
La
fabbrica era stata la casa di un intero quartiere per decine di anni. Tutti
accomunati da un unico obiettivo: far sì che la produzione non calasse, che gli
alti poteri non decidessero di chiudere. Una guerra combattuta da diverse
generazioni, sempre sull’orlo della legalità. In quegli anni, infatti, era
semplice trovarsi coinvolti in qualcosa di più grande. Le Brigate Rosse erano
anche all’interno della fabbrica. Molti degli amici di suo padre erano stati
coinvolti anche solo per aver distribuito un volantino sbagliato.
Erano
anni di forti tensioni, anni difficili, che portarono al preludio della
sconfitta, all’ultimo giro di giostra, alla generazione di Rosario che nulla
più aveva potuto. Con la chiusura dell’Italsider non era stata solo messa una
pietra sopra una fabbrica con migliaia di impiegati, ma su di una forza
coinvolgente e appassionante, la vera energia di Bagnoli, la solidarietà dei
più deboli contro i più forti, la lotta operaia. E, con essa, il comunismo. Dei
più deboli, sosteneva oggi Rosario a giusta ragione, non gliene fotteva più niente a nessuno.
Nei
tempi addietro, invece, la battaglia coinvolgeva tutti, indistintamente.
Scioperi, manifestazioni, picchetti di notte. Rosario attendeva che la madre
finisse di preparare la colazione, poi scendeva di corsa e la portava al padre,
segregato in fabbrica, a scioperare con tutti gli altri. Anche il papà di
Ernesto era presente. Rosario se lo ricorda ancora, un uomo grande e grosso,
con una forza immensa nelle mani bitorzolute. “Mani di ferro” lo chiamavano, in
ossequio anche a quello che ogni giorno i suoi arti contribuivano a produrre.
Ma la gran forza non gli servì a molto quando si ammalò. Come non servì a suo
padre. Anch’egli, come tanti, come tutti, morì presto.
La
fabbrica era nelle case, nell’anima e nei polmoni della gente di Bagnoli. La
polvere nera era dappertutto: sul balcone dove Rosario prendeva a calci un
vecchio pallone di stoffa, nelle stanze da letto, sulle tute blu che gli uomini
si sfilavano la sera con movimenti stanchi. La polvere era sulla pelle, nella
pelle. Sua madre gli strofinava le ginocchia con una retina per farle tornare
pulite. E quando qualcuno tossiva su di un fazzoletto, questi diventava nero.
Eppure
erano tutti felici allora. Nessuno si preoccupava più di tanto, anche perché
nessuno diceva loro di farlo. E poi, quand’anche avessero saputo del rischio,
cosa sarebbe cambiato? Tutti amavano e rispettavano la fabbrica che dava loro
da mangiare, nessuno si sarebbe mai sognato di andare contro colei che era
l’unica a preoccuparsi delle loro esistenze.
Al
nonno di Rosario luccicavano gli occhi quando parlava dello stabilimento.
Spesso sistemava il nipote al suo fianco e gli raccontava dei bombardamenti
della guerra, di come gli operai fossero costretti a rintanarsi nei corridoi
senza finestre perché veniva giù tutto: gli impianti, la palazzina della
direzione, i macchinari. O di come la famiglia fosse stata sul punto di
emigrare su al nord. I Tedeschi avevano intenzione di fare tabula rasa della fabbrica per non lasciare nulla agli Alleati.
Volevano anche trasferire tutto il personale al nord. C’era mancato poco che
l’intera comunità fosse sradicata da Bagnoli.
Rosario
ascoltava rapito quei racconti e quasi gli sembrava di sentire i motori degli
aerei in lontananza o il fragore delle granate.
Furono
gli stessi operai a contribuire alla ricostruzione, dopo la guerra. E suo nonno
fu uno di questi. La famiglia di Rosario, ancora oggi, lo ricordava con grande
orgoglio. La chiusura fu un lutto per le famiglie di Bagnoli. Per fortuna suo
padre non aveva avuto il tempo di assistere allo sfascio.
«Rosa’,
ma da quanto tempo stiamo quassù? A me pare un’eternità!»
«Sette,
otto ore. È ancora poco.»
«Poco?
Io non ce la faccio più! Sono vecchio, Rosa’, i muscoli del collo mi fanno male
e ho le mani gelate.»
Rosario
si voltò a guardare il compagno. Anche Ernesto, un tempo, aveva le stesse mani
piene di vigore del padre. Mani di ferro. Era rimasto ben poco di
quell’energia.
«Te
l’avevo detto, fai venire Pasquale. Ma tu niente, sei capatosta!»
«Rosa’,
abbiamo fatto sempre tutto assieme e assieme proseguiamo.»
Rosario
sorrise e diede una pacca sulla spalla all’amico.
In
effetti, il sole si stava intrufolando in acqua con rapidità, e la temperatura
iniziava a scendere. Da giù avevano gridato che le Istituzioni sarebbero
arrivate a breve. Si doveva resistere. Ma Rosario non vedeva nessuno, e
cominciava a essere anch’egli stanco. Sarebbe voluto tornare a casa, da Angela
e Luigi, suo figlio, ventotto anni e nessuna occupazione, come molti suoi
coetanei. Il pensiero gli diede nuova energia. Doveva combattere anche per lui,
per tutti quelli che non avevano niente. E, se era il caso, passarci anche la
notte su quella gru. Però il pensiero della zuppa calda di lenticchie di sua
moglie gli rubò un sorriso, quello che da tempo, ormai, non riusciva più a
donare alla moglie. Eppure Angela lo avrebbe meritato. Era di due anni più
piccola. Rosario l’aveva conosciuta in fabbrica, come Ernesto. Lei era
impiegata amministrativa, timida e bellissima. La corteggiò per una vita per
ottenere il suo sì.
«Erne’,
te la ricordi com’era bella Angela da giovane?»
Ernesto
guardò Rosario stranito.
«Angela?
E come no, era stupenda, un fiore! Ma come ti viene adesso?»
«E
che no so. Quassù i pensieri volano Erne’. Sarà per via del forte vento.»
Uno dei ricordi più belli che Rosario aveva
di Angela in fabbrica era un otto marzo di chissà quanto tempo prima. Quel
giorno gli operai regalarono le mimose alle donne e poi si fece una gara di
cucina. Vinse lui, con un risotto, non ricordava se ai funghi o agli asparagi.
In ogni caso Angela conservava ancora da qualche parte la foto con lui
sorridente vestito da cuoco. Allora lo faceva spesso, sorrideva alla vita,
poiché questa non gli aveva ancora voltato la faccia. Fu un gran bel giorno
quello. C’erano anche le band dal vivo venute apposta per loro.
Angela,
ancora oggi, andava ripetendo che quella era stata la giornata nella quale la
lotta femminista era stata riconosciuta alla pari di quella operaia. Venne
anche il Sindaco di allora, quello sì che era un grand’uomo, un comunista vero.
Come si chiamava? A ogni modo iniziò il discorso come faceva sempre Berlinguer:
“Cari compagne e compagni...”.
Un
brivido gli accapponò la pelle. Sarà il freddo, pensò Rosario.
«Erne’,
come si chiamava il Sindaco che venne quel giorno, alla festa della donna?»
Ernesto
rispose di getto.
«Valenzi.
Perché?»
«Così,
pensavo a quei tempi…»
«Rosa’,
senti a me, a quei tempi non ci devi pensare. È roba antica. Ricordare fa solo
venire l’appocundria.»
Già,
aveva ragione Ernesto. Il passato era passato, e tale rimaneva. Bisognava
guardare al futuro, anche se sembrava di non poterci scorgere nulla di migliore
di quel che era stato. È proprio vero, pensò, che il meglio arriva quando non
si è ancora pronti ad acciuffarlo.
«Rosa’,
qua si sta facendo buio. Perché non ce ne andiamo a casa e torniamo domani? Io
ho i geloni alle mani.»
Rosario
guardò giù. Molti compagni sembravano essersi dileguati con la penombra. Come
Ischia e Procida, i cui soli lineamenti ormai resistevano all’incedere del
buio. Rosario afferrò le mani dell’amico e le esaminò. Dita piccole e gialle,
corrose dai reumatismi, pelle levigata e arruffata. Erano mani stanche, non più
di ferro.
«Vai
tu» disse infine.
«Rosa’,
qua non viene più nessuno, non lo vedi? Chi vuoi che se ne fotta se ci viene un accidenti?»
Rosario
rispose ruvido stavolta: «Non siamo quassù per me e te, ma per tutti.»
«Ma
quali tutti Rosa’? Ma dove stanno questi tutti? Erano una decina laggiù fino a
un’ora fa, ora sono rimasti in tre. Fa freddo, e la gente ha fame.»
«Erne’,
io ti voglio bene come un fratello, ma queste fesserie non le devi dire! Se non
hai più la forza di lottare, bene, scendi. Non ti giudicherò per questo. Io
resto qua!»
Ernesto
sbuffò. Poi si portò le mani alla bocca e alitò, nella speranza di svegliarle
dal torpore.
«Vabbuo’
Rosa’, come non detto. Rimaniamo qua e vediamo cosa succede.»
Rosario
sorrise. Sapeva che Ernesto non lo avrebbe lasciato solo. Era diventato più
debole negli ultimi tempi, ma era un uomo che non mollava tanto facilmente. Per
anni Ernesto aveva combattuto in prima fila, soprattutto quando c’era da fare
casini o mazzate. Con quelle mani che
si ritrovava, era sempre buttato nelle mischie. Un uomo di ferro era Ernesto,
come il padre prima di lui. Come il nonno. E come tutti gli uomini di quello
strano quartiere abbarbicato alla sua fabbrica che si erano succeduti nel
tempo. Di questi uomini, oggi, non restava che un mucchio di ossa arrugginite.
«Erne’,
stavo pensando…quando ci ridaranno il lavoro, vorrei portare Angela e Luigi a
fare una vacanza a Ischia. È così bella da quaggiù.»
Ernesto
guardò il mare. L’isola era sparita, inghiottita dall’oscurità.
«Sì,
è proprio bella» rispose quindi.
«Anzi,
sai che facciamo, ci fittiamo una casa tutti quanti. Venite anche tu e
Carmela.»
Ernesto
non ribatté.
«Erne’?»
«Eh?»
«Hai
capito che ho detto?»
«E
come no. I bagni a Ischia.»
«Non
mi credi?»
«Certo
Rosa’, certo che ti credo.»
Rosario
stava per controbattere. Poi guardò gli occhi stanchi del compagno e ci
ripensò. A Ernesto non servivano più i sogni, ne aveva fatto collezione negli
ultimi anni. Allora lo strinse a sé e disse: «Coraggio Erne’, vedrai che presto
saremo a casa.»
Restarono
così, uno di fianco all’altro, lo sguardo fisso sull’orizzonte scuro, a sfidare
il vento, come faceva da trent’anni la gru che li sorreggeva.
Lorenzo
Marone
(Napoli, 1974)