L'unica battaglia che ho perso è stata quella che ho avuto paura di combattere.(Che Guevara)

venerdì 10 gennaio 2014

Antologia Senza Fissa Dimora 2013 - 1° Classificato



Uomini di ferro

«Bagnoli è sterminata; un impero, uno dei tanti, della pura materia e della pura potenza. Cos'altro, ormai, possiamo creare? »
Guido Ceronetti

«Rosa’, quassù il vento tira assai forte eh?» disse Ernesto sfregandosi le mani.
«E che ti aspettavi? Hai capito a che altezza stiamo?»
La prima brezza invernale si scagliava contro i piloni di ferro arrugginiti e sembrava lamentarsi della loro presenza. Di fronte, il mare che schiumava nervoso contro Nisida. E oltre, nascoste dalla foschia, Procida e Ischia, che apparivano indifferenti alle rimostranze della natura. Sulla destra quel che rimaneva dell’Italsider, la grande fabbrica che per decenni aveva dato loro da vivere e che ora non esisteva più. Svanita, da un giorno all’altro. Anzi, sottratta. È questo che pensavano Rosario e gli altri. La fabbrica gli era stata rubata.
E a loro non era rimasto null’altro che qualche vecchio pilastro a ricordo della grandezza che fu.
«Rosa’?» chiese ancora Ernesto.
«Eh?» rispose spazientito quest’ultimo.
«Ma mo’ che arrivano i pezzi grossi parli tu?»
Rosario si girò a guardare il compagno di tante lotte. Quest’ultimo indossava un cappellino di lana infeltrito che gli rendeva il viso ancora più piccolo. Un volto scavato dalle rughe e ricoperto di peli bianchi. A Rosario sfuggì un sorriso.
«Che c’hai da ridere?»
«Sembri un pescatore Erne’?»
«Un pescatore?»
«Eh, ti manca solo il peschereccio…»
«Rosa’, che capa fresca che c’hai!»
Rosario non rispose. Ernesto davvero assomiglia a un vecchio pescatore. Aveva solo cinquantacinque anni, ma ne dimostrava il doppio. Era la miseria, pensò Rosario, quella ti si abbarbica sul volto e non ti lascia più, hai voglia a sciacquarti ogni mattina, non c’è nulla da fare. Chissà se era presente anche sul suo viso. Meglio non pensarci, meglio ripassare il discorso da fare al Sindaco. Perché sarebbe arrivato, di questo Rosario era certo. Altrimenti non se ne sarebbero andati. Non stavolta. A costo di dover restare tutto il mese su quella dannata gru.
«Ci parlo io con quella gente, Erne’, non ti preoccupare.»
«Grazie Rosa’. Lo sai, io sono ansioso, m’imbarazzo.»
«Lo so, Erne’, lo so.»
Era vero. Rosario sapeva tutto di Ernesto. Si conoscevano da trent’anni.

Era il millenovecentottantadue quando Rosario era entrato in fabbrica per la prima volta. Lì aveva incontrato l’amico, di un anno più grande. E lì erano stati, uno di fianco all’altro, per un decennio, fino al novantadue, quando lo stabilimento, nonostante la loro battaglia, aveva chiuso definitivamente. Ora, dove un tempo c’erano le colate, cresceva l’erba.
«Rosa’, ti ricordi l’anno scorso, quando ci menammo a mare? Che casino combinammo eh?»
Rosario guardò dritto dinanzi a sé. Un traghetto in lontananza sfidava le onde pur di compiere il suo compito quotidiano. Anche loro, per anni, avevano sfidato le intemperie pur di lavorare. E continuavano, ancora oggi, imperterriti.
«E come no. Vennero pure le televisioni.»
«Ti ricordi come si incazzarono?»
In effetti quel giorno fecero un gran casino. Erano una trentina, si gettarono in acqua con lo scopo di bloccare i vaporetti per le isole. E ci riuscirono. Tante persone ignare, che desideravano solo tornare a casa dopo una giornata di mare, furono costretti a conoscere la situazione degli ex operai dell’Italsider, estromessi finanche dalla dismissione, affidata ad aziende e operai del nord. Quel giorno, sulla banchina, fu promesso ai lavoratori che le cose sarebbero cambiate, che sarebbe stato trovato loro un impiego presso altre ditte.
Promesse, nulla più. Come da vent’anni a questa parte. Una vita spesa nell’illusione di poter tornare a fare quello che sapevano fare.

Rosario era l’ultimo di dieci figli, sette maschi e tre femmine. Tutti impiegati all’Italsider. Tutti operai. E tutti comunisti. Come prima di loro, il padre e il nonno. D’altronde, all’epoca, Bagnoli era tutta rossa. Anche la madre di Rosario era comunista, come le altre donne del rione, costrette ad abbandonare i fornelli per scendere in strada, al fianco dei loro mariti, e obbligate a condividere l’ansia dei loro uomini per la perdita del posto di lavoro.
La fabbrica era stata la casa di un intero quartiere per decine di anni. Tutti accomunati da un unico obiettivo: far sì che la produzione non calasse, che gli alti poteri non decidessero di chiudere. Una guerra combattuta da diverse generazioni, sempre sull’orlo della legalità. In quegli anni, infatti, era semplice trovarsi coinvolti in qualcosa di più grande. Le Brigate Rosse erano anche all’interno della fabbrica. Molti degli amici di suo padre erano stati coinvolti anche solo per aver distribuito un volantino sbagliato.
Erano anni di forti tensioni, anni difficili, che portarono al preludio della sconfitta, all’ultimo giro di giostra, alla generazione di Rosario che nulla più aveva potuto. Con la chiusura dell’Italsider non era stata solo messa una pietra sopra una fabbrica con migliaia di impiegati, ma su di una forza coinvolgente e appassionante, la vera energia di Bagnoli, la solidarietà dei più deboli contro i più forti, la lotta operaia. E, con essa, il comunismo. Dei più deboli, sosteneva oggi Rosario a giusta ragione, non gliene fotteva più niente a nessuno.
Nei tempi addietro, invece, la battaglia coinvolgeva tutti, indistintamente. Scioperi, manifestazioni, picchetti di notte. Rosario attendeva che la madre finisse di preparare la colazione, poi scendeva di corsa e la portava al padre, segregato in fabbrica, a scioperare con tutti gli altri. Anche il papà di Ernesto era presente. Rosario se lo ricorda ancora, un uomo grande e grosso, con una forza immensa nelle mani bitorzolute. “Mani di ferro” lo chiamavano, in ossequio anche a quello che ogni giorno i suoi arti contribuivano a produrre. Ma la gran forza non gli servì a molto quando si ammalò. Come non servì a suo padre. Anch’egli, come tanti, come tutti, morì presto.
La fabbrica era nelle case, nell’anima e nei polmoni della gente di Bagnoli. La polvere nera era dappertutto: sul balcone dove Rosario prendeva a calci un vecchio pallone di stoffa, nelle stanze da letto, sulle tute blu che gli uomini si sfilavano la sera con movimenti stanchi. La polvere era sulla pelle, nella pelle. Sua madre gli strofinava le ginocchia con una retina per farle tornare pulite. E quando qualcuno tossiva su di un fazzoletto, questi diventava nero.
Eppure erano tutti felici allora. Nessuno si preoccupava più di tanto, anche perché nessuno diceva loro di farlo. E poi, quand’anche avessero saputo del rischio, cosa sarebbe cambiato? Tutti amavano e rispettavano la fabbrica che dava loro da mangiare, nessuno si sarebbe mai sognato di andare contro colei che era l’unica a preoccuparsi delle loro esistenze.
Al nonno di Rosario luccicavano gli occhi quando parlava dello stabilimento. Spesso sistemava il nipote al suo fianco e gli raccontava dei bombardamenti della guerra, di come gli operai fossero costretti a rintanarsi nei corridoi senza finestre perché veniva giù tutto: gli impianti, la palazzina della direzione, i macchinari. O di come la famiglia fosse stata sul punto di emigrare su al nord. I Tedeschi avevano intenzione di fare tabula rasa della fabbrica per non lasciare nulla agli Alleati. Volevano anche trasferire tutto il personale al nord. C’era mancato poco che l’intera comunità fosse sradicata da Bagnoli.
Rosario ascoltava rapito quei racconti e quasi gli sembrava di sentire i motori degli aerei in lontananza o il fragore delle granate.
Furono gli stessi operai a contribuire alla ricostruzione, dopo la guerra. E suo nonno fu uno di questi. La famiglia di Rosario, ancora oggi, lo ricordava con grande orgoglio. La chiusura fu un lutto per le famiglie di Bagnoli. Per fortuna suo padre non aveva avuto il tempo di assistere allo sfascio.
«Rosa’, ma da quanto tempo stiamo quassù? A me pare un’eternità!»
«Sette, otto ore. È ancora poco.»
«Poco? Io non ce la faccio più! Sono vecchio, Rosa’, i muscoli del collo mi fanno male e ho le mani gelate.»
Rosario si voltò a guardare il compagno. Anche Ernesto, un tempo, aveva le stesse mani piene di vigore del padre. Mani di ferro. Era rimasto ben poco di quell’energia.
«Te l’avevo detto, fai venire Pasquale. Ma tu niente, sei capatosta!»
«Rosa’, abbiamo fatto sempre tutto assieme e assieme proseguiamo.»
Rosario sorrise e diede una pacca sulla spalla all’amico.
In effetti, il sole si stava intrufolando in acqua con rapidità, e la temperatura iniziava a scendere. Da giù avevano gridato che le Istituzioni sarebbero arrivate a breve. Si doveva resistere. Ma Rosario non vedeva nessuno, e cominciava a essere anch’egli stanco. Sarebbe voluto tornare a casa, da Angela e Luigi, suo figlio, ventotto anni e nessuna occupazione, come molti suoi coetanei. Il pensiero gli diede nuova energia. Doveva combattere anche per lui, per tutti quelli che non avevano niente. E, se era il caso, passarci anche la notte su quella gru. Però il pensiero della zuppa calda di lenticchie di sua moglie gli rubò un sorriso, quello che da tempo, ormai, non riusciva più a donare alla moglie. Eppure Angela lo avrebbe meritato. Era di due anni più piccola. Rosario l’aveva conosciuta in fabbrica, come Ernesto. Lei era impiegata amministrativa, timida e bellissima. La corteggiò per una vita per ottenere il suo sì.
«Erne’, te la ricordi com’era bella Angela da giovane?»
Ernesto guardò Rosario stranito.
«Angela? E come no, era stupenda, un fiore! Ma come ti viene adesso?»
«E che no so. Quassù i pensieri volano Erne’. Sarà per via del forte vento.»

Uno dei ricordi più belli che Rosario aveva di Angela in fabbrica era un otto marzo di chissà quanto tempo prima. Quel giorno gli operai regalarono le mimose alle donne e poi si fece una gara di cucina. Vinse lui, con un risotto, non ricordava se ai funghi o agli asparagi. In ogni caso Angela conservava ancora da qualche parte la foto con lui sorridente vestito da cuoco. Allora lo faceva spesso, sorrideva alla vita, poiché questa non gli aveva ancora voltato la faccia. Fu un gran bel giorno quello. C’erano anche le band dal vivo venute apposta per loro.
Angela, ancora oggi, andava ripetendo che quella era stata la giornata nella quale la lotta femminista era stata riconosciuta alla pari di quella operaia. Venne anche il Sindaco di allora, quello sì che era un grand’uomo, un comunista vero. Come si chiamava? A ogni modo iniziò il discorso come faceva sempre Berlinguer: “Cari compagne e compagni...”.
Un brivido gli accapponò la pelle. Sarà il freddo, pensò Rosario.
«Erne’, come si chiamava il Sindaco che venne quel giorno, alla festa della donna?»
Ernesto rispose di getto.
«Valenzi. Perché?»
«Così, pensavo a quei tempi…»
«Rosa’, senti a me, a quei tempi non ci devi pensare. È roba antica. Ricordare fa solo venire l’appocundria
Già, aveva ragione Ernesto. Il passato era passato, e tale rimaneva. Bisognava guardare al futuro, anche se sembrava di non poterci scorgere nulla di migliore di quel che era stato. È proprio vero, pensò, che il meglio arriva quando non si è ancora pronti ad acciuffarlo.
«Rosa’, qua si sta facendo buio. Perché non ce ne andiamo a casa e torniamo domani? Io ho i geloni alle mani.»
Rosario guardò giù. Molti compagni sembravano essersi dileguati con la penombra. Come Ischia e Procida, i cui soli lineamenti ormai resistevano all’incedere del buio. Rosario afferrò le mani dell’amico e le esaminò. Dita piccole e gialle, corrose dai reumatismi, pelle levigata e arruffata. Erano mani stanche, non più di ferro.
«Vai tu» disse infine.
«Rosa’, qua non viene più nessuno, non lo vedi? Chi vuoi che se ne fotta se ci viene un accidenti?»
Rosario rispose ruvido stavolta: «Non siamo quassù per me e te, ma per tutti.»
«Ma quali tutti Rosa’? Ma dove stanno questi tutti? Erano una decina laggiù fino a un’ora fa, ora sono rimasti in tre. Fa freddo, e la gente ha fame.»
«Erne’, io ti voglio bene come un fratello, ma queste fesserie non le devi dire! Se non hai più la forza di lottare, bene, scendi. Non ti giudicherò per questo. Io resto qua!»
Ernesto sbuffò. Poi si portò le mani alla bocca e alitò, nella speranza di svegliarle dal torpore.
«Vabbuo’ Rosa’, come non detto. Rimaniamo qua e vediamo cosa succede.»
Rosario sorrise. Sapeva che Ernesto non lo avrebbe lasciato solo. Era diventato più debole negli ultimi tempi, ma era un uomo che non mollava tanto facilmente. Per anni Ernesto aveva combattuto in prima fila, soprattutto quando c’era da fare casini o mazzate. Con quelle mani che si ritrovava, era sempre buttato nelle mischie. Un uomo di ferro era Ernesto, come il padre prima di lui. Come il nonno. E come tutti gli uomini di quello strano quartiere abbarbicato alla sua fabbrica che si erano succeduti nel tempo. Di questi uomini, oggi, non restava che un mucchio di ossa arrugginite.
«Erne’, stavo pensando…quando ci ridaranno il lavoro, vorrei portare Angela e Luigi a fare una vacanza a Ischia. È così bella da quaggiù.»
Ernesto guardò il mare. L’isola era sparita, inghiottita dall’oscurità.
«Sì, è proprio bella» rispose quindi.
«Anzi, sai che facciamo, ci fittiamo una casa tutti quanti. Venite anche tu e Carmela.»
Ernesto non ribatté.
«Erne’?»
«Eh?»
«Hai capito che ho detto?»
«E come no. I bagni a Ischia.»
«Non mi credi?»
«Certo Rosa’, certo che ti credo.»
Rosario stava per controbattere. Poi guardò gli occhi stanchi del compagno e ci ripensò. A Ernesto non servivano più i sogni, ne aveva fatto collezione negli ultimi anni. Allora lo strinse a sé e disse: «Coraggio Erne’, vedrai che presto saremo a casa.»
Restarono così, uno di fianco all’altro, lo sguardo fisso sull’orizzonte scuro, a sfidare il vento, come faceva da trent’anni la gru che li sorreggeva.

Lorenzo Marone
      (Napoli, 1974)