Testa d’aglio
Ore 6. Sveglia, caffè e via con la macchina
verso Tito Scalo. Nel cuore di Gerardo la paura per il futuro: “chissà se la fabbrica chiuderà, girano certe
voci!” L’alba rischiara l’orizzonte
a destra verso monte Li Foi di Picerno e nella mente di Gerardo riaffiorano le
parole della sera prima di nonno Nicola: “questi
padroni del nord fin quando fanno i soldi e nonostante lo Stato abbia pagato
loro la fabbrica - ah, Santo Terremoto! - ti lasciano le briciole”. “Parole sagge, ma di parole non si vive”,
pensava il nipote. Gerardo voleva un bene matto a quel matto di nonno Nicola,
ancor più da quando i due erano rimasti soli: il papà morto d’infarto alla
Ferriera, la mamma morta di tumore non si sa perché (anche se Potenza – dicono
– ha l’aria più fina d’Italia). Nonno Nicola era nato contadino e tale era
rimasto per scelta: anche dopo la prigionia in Germania – “maledetta guerra e quel buffone di Mussolini”, come diceva – era
ritornato al suo podere.
“Voglio mangiare pane e cipolla, ma voglio
mangiare a casa mia”, affermava, e mentre così parlava, gli brillavano gli
occhi per un orgoglio strano, quello misto a rabbia arcaica, tipica dei vecchi
lucani e speranza ingenua, tipica dei bambini. Il nonno amava la terra: fare il
vino, scannare il maiale, seccare al sole i peperoni e fare le conserve di
pomodoro erano rituali che lo entusiasmavano come se fosse un eterno
adolescente. Anche ora che è pensionato non ci pensa neanche lontanamente a
fare lo struscio per viale Dante o a prendersi una boccata d’aria a Montereale:
zappa in mano, è sempre lì nella terra che, seppur bestemmiando (è la lingua
dei contadini, ovvia!), si diverte. Nonno Nicola però un cruccio ce l’ha: “a chi lascio questa terra quando muoio?”
Quando la morte soffia sul collo, è risaputo, è momento di bilanci: tutti
vorremmo abbracciarla contenti di dare un’ultima occhiata a quanto abbiamo
realizzato durante tutta la nostra vita.
Ed
in questo risiedeva il motivo del litigio continuo col nipote: “sei proprio una testa d’aglio” – diceva
– “vai sotto padrone a fare lo schiavo
mentre hai l’oro tra le mani”.
Il nonno aveva un sogno che derivava dalle
memorie degli antichi: siccome nei tempi dei tempi in Basilicata non esistevano
medicine ed i braccianti si curavano solo con l’aglio, perché non coltivare
questa pianta, una sorta di “aglio
lucano d.o.c.”? L’idea al nonno era venuta in mente durante l’unica sua
vacanza, in Germania, quando si sono ritrovati tutti gli ex prigionieri
italiani internati: in quel paese l’aglio l’ha visto nelle vetrine delle
farmacie, in cui – a caro prezzo! – stavano esposte le scatole di pillole
all’aglio contro la pressione alta. Che poi l’aglio fosse un antibatterico
naturale il nonno l’ha intuito semplicemente constatando che nella vigna, tra
un filare e l’altro, fin dai tempi dei tempi, i contadini piantavano piante
d’aglio per allontanare i parassiti. “Teste
d’aglio”, diceva il nonno alle persone attorno, “la
Lucania ha l’oro in
mano e lo butta nei fossi”: lo disse gridando ad alta voce una volta, con
tanta amarezza in corpo, quando,
accompagnando il nipote all’ipermercato (di quelli del nord, s’intende!)
ha visto che l’aglio venduto, in rete a pezzi di tre o disidratato nei dosatori
di plastica, veniva dalla Cina! “Ha
ragione nonno Nicola”, pensava tra sé e sé Gerardo, sovrappensiero durante
la guida, “l’idea dell’aglio lucano D.O.C. è buona, ma bisogna zappare la
terra,… ma vuoi mettere lo stipendio a
fine mese?”
Durante il viaggio verso la fabbrica,
complici le prime luci dell’alba, il pensiero andava a Maria, l’eterna
fidanzata, con la quale, da anni, pensavano di sposarsi. Si vedevano ogni sera
in parrocchia, lei faceva la catechista “sempre
appresso al prete”, lui nel frattempo dava una mano a gestire i ragazzi nel
campo di calcetto. Avevano anche iniziato a risparmiare assieme i soldi per
sposarsi, Maria si arrangiava a casa delle anziane a fare le pulizie ed anche i
genitori di lei – non lo dicevano, ma lo facevano capire – avrebbero dato un
generoso contributo per il matrimonio della figlia. “Quello è un bravo giovane, lavoratore ed onesto”, diceva il padre
alla figlia, e ciò valeva più di ogni benedizione di vescovo. Maria e Gerardo
svolgevano due ruoli diversi in parrocchia, ma entrambi si occupavano della
stessa cosa, cioè di tenere uniti, educati e tranquilli i bambini:
probabilmente il loro più grande desiderio era quello di avere dei figli. “Tanti” – diceva Gerardo, sentendosi
sempre rispondere da Maria “solo quelli
che manda Dio”. Ma c’era anche il problema della casa e dei mobili: ai
secondi bene o male si rimedia con avanzi e recuperi, ma per la prima la
soluzione non è semplice per le basse finanze di un operaio. “Con gli affitti cari di Potenza l’unica cosa
è andarsene in qualche paese qua attorno” suggeriva Gerardo come unica
soluzione per spianare la strada al matrimonio, mentre Maria, riluttante come
ogni donna potentina nata in quella città, non ne voleva sentire neanche
parlare. Insomma, amore grande tra i due, ma anche grandi difficoltà a fare una
“vita normale”: “pagare l’affitto, la
luce, il gas, il telefono, il condominio….. e poi vuoi mangiare? E se poi
vengono figli, vuoi comprare il latte, i pannolini, i giochi ed i libri?”
Altro che amore, altro che progetto di coppia, ci vogliono i soldi, e pure
tanti!
Questi pensieri Gerardo li esplicitava con
più consapevolezza già da qualche mese al corso prematrimoniale organizzato dal
parroco. “Frequenza volontaria e benefica”,
diceva il prete, solo che di volontario e benefico c’era ben poco. “Ma se due si vogliono bene, perché
costringerli ad andare al catechismo, come se fossero tanti scolaretti?”
Alla domanda il prete, logicamente, non rispondeva, ma spesso il silenzio è ben
più eloquente delle parole! Maria e Gerardo si amavano, ma probabilmente ciò
non bastava: bisognava imparare come
amarsi e rispettarsi, ma “da cristiani”, come educare i figli, pure sul sesso
bisognava parlare a questo corso! Gerardo, poi, infastidito che era nel dover
parlare di sé con estranei, non comprendeva perché fosse necessario complicarsi
la vita oltremodo, parlare di progettualità di coppia, matrimonio e sacramenti,
condividere il suo amore con Maria assieme a tutta la comunità. Diventava però
meditabondo nel vedere che, durante il corso, alcune coppie andavano in crisi e
chiedevano di rimandare il matrimonio. Forse per sposarsi non basta solo
l’amore, ci vuole pure vera comunicazione reciproca e la consapevolezza di non
essere mai soli, di avere attorno a sé sempre degli amici fidati. Oltre a Dio,
s’intende. Ed il pensiero era sempre su Maria, con la quale già de tempo
andavano in giro per negozi a scegliere gli abiti di nozze: lui in doppiopetto
e cravatta, lei in abito bianco e col velo, s’intende. Anche per le bomboniere
Maria si era organizzata, cercando su internet una ditta abruzzese di confetti
per una spedizione diretta in grande quantità e a prezzo contenuto. Brava
moglie risparmiatrice!
Affogato in tutti questi pensieri Gerardo
arriva finalmente alla fabbrica, certo che oggi sarà come ieri, stesse facce e
stesso clima, stessi orari e stesse battute. L’unica preoccupazione è quella di
trovare un parcheggio vicino all’uscita, in modo da fuggire via a fine turno. “Ma che fanno quelli lì di fronte al
cancello? Ma mi fanno passare?” E giù una bella suonata di clacson, subito
interrotta dopo aver letto il cartello appeso al cancello con su scritto
“sciopero”. “Uffa, un’altra volta uno
sciopero per perdere soldi in busta paga? Ma io mi devo sposare!” Tra il
contrariato e l’annoiato Gerardo scende dall’auto e, in pochi secondi, inizia a
sudare freddo intuendo quello di cui, in fondo in fondo, ha sempre avuto paura.
“Ma come, non hai ricevuto pure tu la lettera
di licenziamento?” – chiedono i colleghi. “Ecco cos’era la cartolina gialla infilata nella cassetta postale, ed io
che credevo che fosse il pacco dei confetti che era arrivato!”. La ditta è fallita, i proprietari hanno
portato i libri contabili in tribunale e sono spariti. E gli operai? E la
produzione? E le commesse? E gli stipendi? E i mutui da pagare? E le spese di
famiglia? E io? E il matrimonio con Maria?
E chi glielo dice ora a Maria? E con che
coraggio lo racconta ai suoceri, agli amici, ai parenti? Come fa a pagare
l’abito da sposo, i fiori in chiesa, il viaggio di nozze? Maria, che in una
prima fase si sforza di comprendere ed appare solidale, realizza solo ora di
avere davanti a sé un fallito. L’uomo che avrebbe portato a casa lo stipendio
non c’è più. Addio sogno di famiglia con figli, la casa da prendere in affitto
ed arredare, l’idea di essere, dopo anni di fidanzamento, “come le altre”,
felice, realizzata, maritata. Maria non glielo dice chiaramente a Gerardo, ma
costui lo intuisce da sè: è finita. Non c’è bisogno di litigare o recriminare,
è lui stesso a fare un passo indietro, a non cercarla più, a far finta di non
conoscerla. Né Maria lo cerca più, come se il silenzio fra i due contenesse
tutti i significati di questo addio.
Restare a trent’anni disoccupato a Potenza
non è per nulla bello, ancor più se ciò avviene proprio prima del matrimonio.
Non è solo una questione di soldi: è la dignità stessa che viene rubata a chi,
da un giorno all’altro, sa di essere solo un peso per la società. I giorni
perdono la scansione oraria, diventa indifferente alzarsi di mattino o a
mezzogiorno, per strada non si va più per svagarsi dopo il lavoro, bensì per riempire
il tempo, buttati su di una panchina o rintanati in un bar. Ogni giorno è
uguale all’altro, con l’aggravio che la disponibilità di tempo e la recente
delusione amorosa spingono Gerardo verso la solitudine, la malinconia, la
riflessione forzata. La disoccupazione è, infatti, un’occasione in cui si è
costretti a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Ci si arrovella
ogni giorno con domande del tipo “dove ho
sbagliato? Ma non era meglio continuare a studiare? Maria, in fin dei conti, mi
amava o amava il suo sogno personale? Perché mi sono fidato di questi padroni
del nord? “ Restare disoccupati a Potenza non è facile, ci si iscrive
all’ufficio del lavoro facendo la fila con altri che vi stazionano ormai da
anni, si mandano curriculum e domande dappertutto senza ricevere risposte, si
contattano amici e parenti per spargere la voce senza avere alcun riscontro, si
bussa a tutte le porte ricevendo solo qualche offerta di “lavoretto in nero e a
giornata”. Anche la sussistenza è un’umiliazione: per avere la disoccupazione
bisogna aspettare la vertenza sindacale, per avere qualche bolletta pagata
bisogna chiedere la carità all’assistente sociale del Comune o andare alla
Caritas, al pari dei barboni. Se con gli ex colleghi anziani non c’è più
contatto (chi ha famiglia deve vedere come sbarcare il lunario!), più
facilmente ci si incontra con quelli della stessa età e dal destino simile:
finisce però spesso che ci si deprime in gruppo, a riempire il tempo con
mangiate e bevute e a dimenticare grazie a qualche spinello. Gerardo, che non
aveva mai fumato prima, si ritrova in poco tempo a provare tutti i vizi del
mondo, dallo spinello di marijuana alla bottiglia di cognac, dai siti
pornografici su internet alle partite a soldi nei retrobottega dei bar, dai videopoker
alle scommesse ippiche. Frequentando questi giri aveva anche avuto
avvicinamenti da parte di soggetti loschi con promesse di denaro facile: si
trattava di compiere dei furti di notte o pestare a sangue qualche cattivo
pagatore. Il problema era che Gerardo non parlava con nessuno, si teneva tutto
dentro, riempiva il tempo con queste amicizie tossiche, ma allo stesso tempo non prendeva decisioni.
Si sentiva solo: d’altra parte lo era già prima, con la mamma morta di tumore
ed il papà morto d’infarto per il lavoro stressante, lasciato da Maria, si
poteva ormai considerare una mina vagante in questa maledetta città. Se
delinquenti si nasce, lo si può però anche diventare, e qui risiedeva il
problema di Gerardo: era come se il nostro uomo fosse spaccato in due, da una
parte il lasciarsi andare al male, dall’altra il resistere per il bene. Ma
quale bene, se i genitori, lasciandolo solo, lo avevano di fatto abbandonato?
Quale bene, se la vita stessa lo aveva tradito anche nelle sue aspirazioni più
sane? Quale bene, se pure Maria, dopo anni di fidanzamento, lo aveva piantato?
Il bene genera bene, è vero, ma se nessuno te lo dà, come fai tu a darlo agli
altri? Gerardo si vergognava un poco di
se stesso, scoprendosi così facile al pianto quando era da solo, ma la rabbia
emergeva più forte e si riscopriva, ormai trentenne, come un bambino bisognoso
di essere consolato. Aveva una gran voglia di esser accarezzato, di affogare i
propri singhiozzi tra i seni di una donna, di trovare pace tra le braccia di
Maria.
Come tutti i bambini, che non comprendono la
differenza tra le loro colpe e quelle dei genitori, anche Gerardo stava cadendo
nella trappola della disperazione. Convinto che il motivo di questo star male
fosse proprio lui, si caricava addosso tutte le colpe, quelle della malattia
dei genitori e quelle dei politici regionali che avevano finanziato al 100% la
fabbrica a Tito, quelle dei padroni del nord leghista e quelle dei padroni di
casa di Potenza, quelle degli amici ubriaconi e drogati e quelle di Maria che
aspettava il principe azzurro con i milioni in tasca. Un pò come Gesù Cristo,
che andava alla morte caricandosi di tutti i peccati del mondo, allo stesso
modo Gerardo andava maturando l’idea di farla finita come se ciò fosse una
necessaria scelta liberatrice dalla sofferenza. Ora il nostro uomo capiva
veramente il senso della messa domenicale, quando il corpo di Cristo spezzato
per noi diventa una “nostra” esperienza di vita. D’altra parte se Cristo aveva
scelto la morte, pur potendo liberarsene, ciò derivava dalla volontà di Dio;
allo stesso modo, forse, anche il suicidio di Gerardo poteva apparire
compatibile con i misteriosi piani di Nostro Signore. Più ci pensava il nostro
amico e più se ne convinceva: “voglio
farla davvero finita, visto che io non sono nessuno, né qualcuno mi vuole bene”.
Si, ma come? Gerardo aveva iniziato ad esplorare il modo come altri potentini
prima di lui avevano fatto. Molti si erano suicidati buttandosi dal ponte di
Picerno: il più alto della Basilicata, la botta finale non avrebbe risparmiato
nessuno. L’alternativa classica consisteva nell’impiccarsi, ma gli faceva paura
l’idea del tempo dell’asfissia: aveva fatto la prova in piscina, facendo apnea
fino al limite, ma la sensazione non gli piaceva affatto! Restava il veleno per
i topi o il cocktail di medicine, ma l’agonia lunga non lo convinceva: se poi
il pronto soccorso lo salvava, che figura ci faceva, davanti a tutti? In
effetti ciò che Gerardo voleva non era la morte in sé, bensì l’effetto della
sua fuoriuscita dalla vita da parte di chi lo conosceva: sicuramente i suoi
compagni di lavoro lo avrebbero considerato un eroe, sicuramente il TG3 avrebbe
fatto un servizio sulla condizione lavorativa dei giovani lucani, sicuramente
Maria si sarebbe sentita in colpa per tutta la vita. Quasi una vendetta verso
chi gli aveva voluto bene, ed è questo l’errore del suicida: nel togliersi di
mezzo, si condanna al dolore chi resta, è come far sparire la rabbia buttandola
addosso a chi amiamo.
Farneticando con questi pensieri, addirittura
compilando uno schema scritto sulle “cose da fare” prima di farla finita,
Gerardo si convince sempre di più di adempiere ad un disegno divino. Quel Gesù
Cristo in croce, innocente, gli fa pena, allo stesso modo di come vorrebbe
venir considerato lui alla sua morte: una vittima sacrificale. Ed è proprio in
chiesa, da solo in meditazione, che il nostro uomo si convince di voler
arrivare in paradiso pulito: una bella confessione e via! Va detto che questo
proposito, altamente cristiano, richiede però sempre un prete disposto
all’ascolto delle anime e disponibile a chiudersi nel confessionale. Operazione
alquanto ardua perché il nostro “Don” tutto sapeva fare - dal politico al
cuciniere, dall’animatore di feste al tour-operator – ma il confessore,
paziente, sensibile ed umile, proprio non lo sapeva fare. L’alternativa era
andare da un altro prete anonimo, ma Gerardo pretendeva, almeno prima della
propria morte, un ascolto da chi, in fondo in fondo, lo conosceva fin da quando
portava i calzoni corti e gli voleva un mare di bene. Il problema dell’aggancio
era quindi di natura pratica: il Don non è che se ne stesse a leggere il
breviario in chiesa in attesa di anime pie, bisognava invece trascinarlo fuori
dalle sue riunioni o prenderlo per la gola, attirandolo a casa con una cena,
visto che era solito andare a letto con due uova fritte nello stomaco.
Gerardo si mette quindi alla caccia del Don. “Ma dove sarà questo vecchio pazzo, visto
che in chiesa non c’è mai, la sacrestia neanche esiste (ci ha messo la
sala-giochi) e al citofono non risponde?” Non resta che andare a scovarlo
nel dedalo delle stanze parrocchiali, come un pescatore armato di fiocina il
nostro uomo apre quindi ogni porta, ogni volta scusandosi con i diversi gruppi
lì riuniti sotto le più svariate egide. L’ultima stanza è quella del commercio
equo e solidale, la “bottega” – come la chiama Gerardo – in cui vendono caffè,
cioccolata ed altre cianfrusaglie; ed il prete è proprio lì, ma in riunione.
Appena il nostro uomo entra lo fanno sedere, e così Gerardo si ritrova
incastrato nel gruppo a sorbirsi le chiacchiere sull’America Latina; ma lui non
ascolta, ha il pensiero ancora fisso
sulla morte e la rabbia di perdere tempo con questi idealisti del
cavolo, i quali, invece di aiutare i potentini (come lui), aiutano invece
quelli che stanno dall’altra parte del mondo.
D’altra parte li conosce tutti, fin da piccolo ci ha giocato a calcetto
e con alcuni di loro ha fatto comunione e cresima, per non parlare del fatto
che qualcuno – che ha conosciuto nel corso prematrimoniale – si è pure sposato.
Il taglio è poi sempre quello intellettuale: si va dalla critica politica al
capitalismo alla teologia della liberazione, dalla bibbia incarnata nella
storia alla fede testimoniata con coraggio.
Quel che scuote però il torpore di Gerardo è
uno strano accostamento da parte del Don tra America Latina e Basilicata:
secondo il religioso il problema del mondo non è la lotta al capitalismo, bensì
l’utopia di creare uno sviluppo sostenibile ad opera delle persone povere. “In America Latina le comunità cristiane di
base organizzano il lavoro della gente al proprio interno, sono i poveri che
decidono di lavorare per loro stessi e non per i capitalisti stranieri”.
Questa parola “capitalisti stranieri” fa svegliare all’improvviso Gerardo, il
cui pensiero va subito ai padroni della sua fabbrica: scesi al sud da Varese
grazie ai contributi della Regione Basilicata, hanno succhiato il sangue degli
operai, hanno inquinato l’ambiente, ed ora dichiarano fallimento e se ne
tornano vicino alla Svizzera (nelle cui forzieri nascondono miliardi) a fare i
leghisti e a tuonare contro Roma-ladrona e i meridionali fannulloni. La stessa
storia dell’ILVA di Taranto: una ricca famiglia lombarda intossica tutta una
provincia, si porta per decenni i guadagni al nord e poi ricatta lo Stato per
le bonifiche, dando poi la colpa alla popolazione ammalata di cancro per il
probabile licenziamento di migliaia di operai. “Ma che grandi figli di buona donna, questi capitalisti”, pensa
Gerardo, comprendendo come lo stesso mostro che ammazza l’America Latina è
quello che assassina da decenni la Basilicata: una sbagliata idea di sviluppo. Ma un
aspetto lo colpisce di più nella discussione, e non è un mero dettaglio: la
silicosi dei minatori peruviani ed il cancro dei lavoratori delle banane in
Costarica gli richiamano chiaramente l’infarto del papà ed il tumore della
mamma. L’idea è chiara: un modello di sviluppo ad opera degli stranieri produce
solo all’apparenza ricchezza, di fatto porta furto di risorse e morte per le persone.
Se lo straniero razzia nel mondo per accumulare oro a casa sua, lasciando sul
campo morte e dolore, una sola è l’alternativa: che i popoli riprendano in mano
il proprio destino e decidano di lavorare a modelli di sviluppo autoctoni,
umani, salutari e condivisi. D’altra parte, è così facile da capire che neppure
un bambino ci cascherebbe: ma come hanno fatto i lucani per cinquant’anni a
credere alla favola dell’industria costruita sulle montagne, coi contributi
pubblici e con le dirigenze del nord, lontana dalle vie di comunicazione ed
alimentata da accordi sindacali che costringono l’operaio a prendere meno delle
tariffe nazionali? La stessa FIAT di Melfi è un miraggio: natura violentata,
l’illusione del lavoro pagato a mille euro al mese (o meno, con la cassa
integrazione) a costo di stress e pendolarismo, aumento dei prezzi di case ed
alimenti in tutta la zona, con la beffa finale in base alla quale tutto il
guadagno viene poi giocato in borsa e riciclato nelle scalate americane alla
Chrysler. Dove ora è la FIAT,
a San Nicola di Melfi, Gerardo ci passava tanti anni fa di domenica con gli
amici dopo esser stato ai laghi di Monticchio per andare a Foggia: un mare di
grano, accarezzato dal vento, una favola indescrivibile di odori e di fruscii.
“Maledetti capitalisti, non dobbiamo
farci rubare la terra, le nostre idee, la nostra storia” tuona
all’improvviso Gerardo, lasciando tutti a bocca aperta per questo sussulto
comunista da parte di chi, fino ad allora, si era solo occupato di calcetto.
Finanche il Don, che solo allora si ricorda di chiedergli che volesse, deve
accontentarsi di una delle solite frasi del nostro uomo: “niente,…cioè tutto!”.
Dio ispira gli uomini in modo strano,
inaspettato, finanche bizzarro: basta solo leggere il vecchio testamento per
capire di che soggetto si tratta. Dio chiama all’ufficio degli apostoli i
soggetti meno affidabili e all’onore della santità i diavoli più scatenati, è
questo il suo stile. Il Signore che rovescia i potenti dai troni ed innalza gli
umili si è sempre avvalso di persone strane e disperate, ma cocciute e
risolute: caratteristiche - neanche a farla apposta! – innate nel nostro amico
Gerardo. Ma c’è un precedente storico di cui tener conto: Nostro Signore ha
sempre portato all’onore della storia e del riconoscimento ecclesiastico molti
uomini di tutto il mondo, ma quasi nessuno che fosse lucano. Che possibilità ha
un lucano doc come Gerardo, tra l’altro aspirante suicida e cronico disoccupato
a forte rischio di devianza criminale, di essere nel cuore di Dio? Come si fa a paragonare un indio cresciuto
nella teologia della liberazione al confuso Gerardo amico del Don? Come può la
liberazione dalla schiavitù culturale verso un errato modello di sviluppo
passare dalla testa di un operaio disoccupato di Potenza?
Gerardo ora sa che la morte non gli porterà
nulla. La rabbia che ha verso di sé e verso il mondo deve assolutamente esser
convertita in energia positiva. Si, ma come? E con chi? Domande che non trovano risposta e che
svaniscono in un attimo quando arriva a casa: davanti al portone un’ambulanza,
gli infermieri stanno caricando il nonno con la lettiga. “No, il nonno no, è l’unica persona cara che mi resta” urla Gerardo,
scoprendo solo in quel momento quanto fosse stato stupido fissarsi con i
pensieri di morte, con la solitudine, con le cattive compagnie. Riesce ad
infilarsi nell’automezzo facendosi largo coi pugni tra i portantini, stringendo
la mano al nonno morente per tutto il viaggio fino all’ospedale di Macchia
Romana. Pochi minuti, ma un tempo eterno, in cui il nonno sapeva di doversi
accomiatare dal giovane nipote nel migliore dei modi che conosceva lui:
dandogli le istruzioni per il suo futuro. Il vecchio burbero non conosceva le
fantasie suicide del nipote, anzi già da un po’ lo sgridava per la sua sregolatezza
di vita. Se il nipote non parlava, il nonno intuiva il tormento nascosto e,
come suo solito, lo redarguiva con dure parole: “testa d’aglio! I padroni del nord ti hanno fregato! Ma a me non è
andata così, ho campato del mio lavoro e vado tranquillo dal Padreterno”. E
poi, con un filo di voce, prima di spirare, le sue ultime parole: “Fa’ come me, non ti preoccupare, Dio vede e
provvede!”
La morte del nonno era per Gerardo una
tragedia in tutti i sensi: oltre alla perdita dell’affetto dell’unica persona
cara, oltre alla delusione per il libretto postale del nonno quasi vuoto, oltre
alle incombenze del funerale e della tumulazione, si presentava ora la bega del
notaio: essendo il nostro uomo l’unico erede, si ritrova ora con una casa ed un
podere sulle spalle. Dopo il panico iniziale, a mente fredda, iniziava a farsi
strada l’idea di liquidare il patrimonio, così da viverci per un po’: d’altra
parte cosa avrebbe potuto fare lui, operaio metalmeccanico, con la zappa in
mano? Già dal giorno del funerale, all’atto delle condoglianze, qualche vicino
di terra si era fatto avanti per prenotarsi la terra: Gerardo era tentato lì
per lì di spaccargli la faccia, ma poi l’idea di poterci guadagnare soldi lo
faceva acquietare. Ma non era impresa facile: come gli avvoltoi attorno alla
carogna, così gli acquirenti si strinsero attorno al metalmeccanico disoccupato
nei giorni seguenti il lutto per prenotarsi a prezzo di saldo la terra del
nonno. Eppure Gerardo ebbe un guizzo, percependo di aver già visto questo “film”
altrove: come alla FIAT di Melfi, come all’ILVA di Taranto, come ai pozzi
petroliferi in Val d’Agri, come alla sua fabbrica di Tito Scalo, per
sopravvivere ci si svende per quattro soldi invece di prendere in mano il
proprio destino. Ma perché svendere se stessi se si sa già che a guadagnarci
sarà sempre l’altro? In ciò Gerardo sentiva di essere come gli altri lucani:
nel miraggio di un benessere breve si decideva di tradire la propria terra. Ma
la “terra”, per lui, non era solo un’accezione simbolica – tipo la “tierra” dei
“campesinos” cui si rifaceva lo striscione di Monsignor Romero appeso in
parrocchia - , ma era la “terra-terra”, quella da zappare, quella che ti fa
sudare, quella che “fa gettare il sangue”. Ma a ben pensarci, non aveva mai
visto il nonno maledire la terra: fatica sì, e pure tanta, ma un attaccamento
forte, passionale, quasi un amore. Lo stesso amore che gli richiama alla mente
Maria, ma pure Gesù Cristo appeso sulla croce. Gli ritorna in mente una frase
che il Don disse in uno dei suoi incontri sul commercio equo e solidale: “in America Latina le comunità cristiane di
base organizzano il lavoro della gente al proprio interno, sono i poveri che
decidono di lavorare per loro stessi e non per i capitalisti stranieri”.
Parole sagge su cui riflettere bene.
Si sforzava di capire cosa avrebbe detto il
nonno, se fosse stato lì presente, a vedere il nipote fallito svendere la sua
terra coltivata per tutta la vita: “testa
d’aglio”, avrebbe sicuramente urlato! Ma una cosa era certa: non avrebbe tradito
il nonno, quindi cercava tra le parole della sgridata il senso di questo
amore. Per “testa d’aglio”, infatti, a
Potenza si intende la persona ottusa e smemorata: in ciò Gerardo si ritrovava
in pieno. Ma la “testa d’aglio” è pure il bulbo che viene venduto nei negozi
alimentari e questa similitudine gli balzò subito agli occhi, ricordandogli
quella volta che il nonno si rifiutò di comprare l’aglio all’ipermercato perché
proveniente dalla Cina. Ora, credete ai miracoli? Pensate sia possibile che la
liberazione di un povero disoccupato lucano passi per una testa d’aglio? Perché Dio opera in maniera così stramba col
nostro uomo? La conversione non è un “fatto magico”, è piuttosto una scelta
razionale, consapevole, voluta, da parte di chi nella vita finalmente capisce
il senso delle cose e si muove di conseguenza. A Gerardo appare tutto più
chiaro, nel suo sangue sente, prepotente più che mai, la stessa energia del
padre, del nonno, di tutti gli avi che da sempre hanno sognato di possedere la
terra per coltivarla, invece di sopravvivere da braccianti o mezzadri. “Finalmente ho la possibilità di decidere per
me stesso, e devo solo volerlo, visto che ho già di che vivere: la terra”.
E fu così che il nostro amico lasciò l’abitazione in affitto, liquidò i vicini-acquirenti-avvoltoi
e si trasferì nella casa di campagna del nonno.
Il ritorno alla campagna non è facile per un
operaio-cittadino: niente cinema o passeggiate o discoteca, niente stipendio a
fine mese, niente di niente. Ma i vantaggi sono anche tanti: niente costi di
affitto, niente padroni, colleghi o scioperi, niente cartellino marcatempo. La
frase che il nonno ripeteva “voglio
mangiare pane e cipolla, ma stare a casa mia” gli faceva capire solo in
quel momento l’importanza di essere felici accontentandosi del proprio lavoro,
il che è indubbiamente un gran valore per ogni uomo. Il lavoro da fare poi era
tanto: dalla morte del nonno molte piante stavano seccando ed il primo compito
era proprio quello di salvare quelle vite. Gli piaceva pure il paragone
semantico tra “vita” (che è sacra a Dio) e “vite” (che è sacra agli uomini,
specie ai buongustai del vino), anzi credeva che la similitudine non fosse
affatto casuale; si dedicava quindi con ardore e pazienza a riportare alla vita
tutto l’orto di nonno Nicola. Ma non era preparato a fare il contadino, per
esempio per evitare gli attacchi dei parassiti che bisogna fare? Usare il
verderame? Usare i nitriti?
Ma
come si usano e quanto costano? “Testa
d’aglio”, gridava ancora il nonno nella sua testa e, quasi per magia, si
ricordò che l’aglio era usato in Basilicata, dai tempi dei tempi, come
antiparassitario. Ed ecco il nostro uomo all’opera: piantare agli dappertutto,
operazione tra l’altro semplice, basta infilare uno spicchio sotto terra ed il
gioco è fatto!
Ormai convinto contadino, per quanto ancora
tecnicamente impacciato, ma fondamentalmente convinto dell’idea di dover e
voler trovare nella terra il suo riscatto, Gerardo comprende – da ex operaio
metalmeccanico – che ogni mestiere va imparato, che le tecniche sono
necessarie, che ogni attitudine, per diventare competenza, ha bisogno di studio
e formazione. Aveva in fondo al cuore il sogno di investire proprio sull’aglio,
un “aglio lucano doc”, da vendere a tutti, pure ai cinesi, ma la strada era
davvero lunga; si vergognava pure a dirlo agli amici, figuriamoci che idea del
cavolo!.
E fu una domenica, dopo la messa, che il
nostro uomo casualmente si imbattè in un manifesto nascosto attaccato ad un
muro in cui la Regione Basilicata
offriva un corso sulla “microimpresa agricola”. “E’ quello che ci vuole per me”, diceva tra se e sé, e senza batter
ciglio andò ad iscriversi. E fece bene: imparò tutte le tecniche
dell’agricoltura biologica, imparò il marketing che serve a vendere i prodotti
sul mercato nazionale, imparò a trasformare la casa del nonno in agriturismo.
Gerardo dopo il corso sembrava impazzito.
Coltivava verdura di ogni genere e, per averla biologica, si affidava proprio
ai suoi agli, le cui piante colorate si ergevano ormai come bandiere in tutti i
suoi possedimenti. Per vendere i suoi prodotti si era creato un giro di
clienti-amici: grazie al Don, molti parrocchiani si recavano nei suoi
possedimenti settimanalmente per fare il pieno di prodotti genuini, a prezzo
giusto e a chilometro zero. Il concime per le piante arrivò poi dall’avvio di
allevamenti di polli e conigli, i quali, se mangiavano tutti i resti vegetali
delle coltivazioni, restituivano però uova fresche e carne bianca di buona
qualità. Gerardo si specializzò inoltre a produrre miele: con un centinaio di
alveari riusciva a produrre almeno una cinquantina di chili di miele per volta,
oltre al propoli e alla cera (le cui candele naturali vendeva al Don, il quale
le sostituiva con quelle sintetiche dell’industria). Gestire l’iperproduzione
estiva divenne in breve un grande problema: più che svendere il prodotto,
Gerardo recuperò vecchie ricette della nonna e si specializzò nelle conserve,
dalla salsa di pomodoro ai sott’oli, dai sottaceti alla verdura secca (peperoni
cruschi e pomodori seccati). Divenne
quindi necessario aprire un piccolo spaccio, e lo fece proprio nella casa di
nonno Nicola: chi voleva, veniva e comprava quel che voleva. Siccome era sempre
più convinto che lo svago non era solo questione di città, ma pure di campagna,
ecco che si inventò delle “serate a tema”: una volta al mese, di sera, un
gruppo musicale o un gruppo teatrale animava il cortile prospiciente la casa di
nonno Nicola con uno spettacolo, mentre Gerardo serviva la cena e vendeva i
prodotti. Ma il clou si ebbe con l’agriturismo: se all’inizio si accontentava
di pochissimi ospiti casuali – spesso coppie alla ricerca di una notte d’amore
lontano da occhi indiscreti – tramite internet riuscì ad ospitare gente
forestiera, spesso anche stranieri. Più che locanda, l’agriturismo di Gerardo
era il luogo in cui egli comunicava agli ospiti il suo progetto di vita, nato
da una crisi di lavoro e d’amore e sfociato alla fine in un miracolo. Non
offriva agli ospiti il solo letto, se questi ne avevano voglia potevano dare
una mano alla vendemmia o alla produzione di conserve, idem se veniva loro
l’idea di imparare a fare la pasta di casa o a intagliare il legno.
Riuscì inoltre a farsi riconoscere
dall’Assessorato regionale all’agricoltura come “fattoria didattica”: in
accordo con le scuole riceveva classi intere in cui, assieme ai bambini,
trasmetteva le tradizioni contadine lucane realizzando, assieme ai piccoli, un
prodotto culinario: a volte il pane, a volte la marmellata, a volte i sott’oli,
a volte il formaggio. In ossequio alla memoria del nonno inventò la conserva di
aglio. Metteva gli spicchi sottolio, ma inventò pure la “pasta d’aglio”, una
specie di crema, un prodotto che piaceva tanto, da aggiungere a cucchiaini al
sugo o da spalmare sulle bruschette. Il suo segreto era “ingentilire l’aglio”:
con l’aggiunta di origano, pecorino macinato e peperone secco in polvere (dolce
o piccante, a seconda dei gusti del cliente) il “bulbo malefico” (malefico per
la puzza) si trasformava in prelibatezza da intenditori. Anzi, la combinazione
“aglio-peperoncino-pecorino” la battezzò “elisir d’amore” sull’etichetta:
chissà perché, forse per gli effetti afrodisiaci, ma il nostro intuito ci
spinge verso più popolane riflessioni. Insomma, gli affari non andavano affatto
male ed il nostro amico era davvero felice.
Gerardo a volte restava in chiesa a meditare
anche dopo la messa; spesso se ne scappava sulla balaustra da cui, aiutato
dalle vetrate colorate, riusciva a meditare godendo al contempo della vista
sottostante. Questa sensazione lo aiutava ad astrarsi dal mondo, ad elevarsi
dalla terra, ad avvicinarsi (anche se solo per qualche metro) a Dio. Pensando a prima – operaio, disoccupato
fallito, piantato dalla fidanzata – e a dopo – piccolo imprenditore agricolo
dalle mille idee – si chiedeva spesso: “ma
stavo davvero meglio quando stavo peggio?” A volte si chiedeva se la sua
avventura, più che sopravvivere alla crisi, fosse stata una necessaria e
salutare svolta di vita. La risposta la comprendeva solo ora, avendo egli
affrontato la crisi lavorativa come un’occasione di cambiamento, di ritorno
all’economia locale, di rispetto e fedeltà verso nonno Nicola, di amore verso
la sua terra e la sua gente. Aveva però pagato un prezzo: quello di restare da
solo, quello di aver imparato a “saper” stare da soli. Fantasticando in questi
pensieri, seduto sulla balaustra della chiesa, Gerardo si trovava così
casualmente alla stessa altezza del Cristo in croce, il che lo colpiva: il
figlio di Dio, solo, tradito, abbandonato, allo stesso modo di come si sentiva
lui. Che strana adorazione: fuori da ogni rito ecclesiale, Gerardo si incarnava
in Cristo, lo sentiva uguale a sé, solo, sconfitto, ma contento dentro di sé
per le cose realizzate nella vita. La solitudine, che lui aveva sempre
rifuggito nella vita, ora era la condizione ricercata per stare in armonia con
se stesso e con Dio. Si sentiva un po’ come un monaco di clausura: solo si, ma
non in solitudine, anzi in armonia col mondo, con gli altri, finanche con Dio.
Da questa dimensione riusciva meglio a comprendere il proprio passato, il quale
aveva un unico filo conduttore: la dipendenza. Come un drogato, sapeva che il
suo “stare bene” era dipeso non da sé, in fin dei conti, ma dagli altri: essere
dipendente dal padrone della fabbrica, essere dipendente dal giudizio degli
amici, essere dipendente dall’immagine di “coppia ideale” di Maria. Più
osservava il suo ambiente e più si rendeva conto che tutta la città si muoveva
su meccanismi di dipendenza: dal voto di scambio (voto contro interesse
personale) ai rapporti familiari (interessi
economici contro affetti apparenti), dal lavoro (stipendio basso contro
lavoro alienante) all’amore (sesso e affetto contro agiatezza economica). Era
un amore-odio verso la propria terra, un vecchio sentimento dei lucani, combattuti
tra l’emigrazione alla ricerca di riscatto e la permanenza “adattiva” alle
regole del gioco. D’altra parte cosa avrebbe fatto se non avesse continuato a
lavorare nel podere di nonno Nicola? Si sarebbe probabilmente messo in fila
assieme agli altri a chiedere una raccomandazione al politico locale, oppure
sarebbe dovuto partire per il nord a continuare a farsi sfruttare in qualche
fabbrica, con l’aggiunta di farsi chiamare terrone o marocchino da parte degli
imbecilli padani. “Ho fatto la scelta
giusta, e ne gioisco”, pensava tra sé e sé, appollaiato nella balaustra. La
sua convinzione affondava le proprie radici non solo nella sua storia
personale, ma anche in quella della sua gente: in effetti la sua scelta era
davvero una “bella scelta” da portare a modello a tanti giovani lucani, con in
mente il dilemma tra il restare ed il partire. Altro che meridionale
assistenzialista che campa con i soldi del nord: qua c’è un orgoglio che è
personale e storico, che si basa sui fatti e che dà prospettive future a tanta
gente. La sua, ormai, la considerava pure una scelta di fede: il paragone tra
Basilicata ed America Latina, entrambi terre ricche, ma spogliate dai
capitalisti del nord, gli faceva capire che Dio era con lui. Una fede non
campata all’aria, consumata tra rosari e litanie, ma tradotta in vita vera, in
capacità ad essere autonomi e di vivere delle proprie risorse.
Gerardo aveva mollato da tempo la zavorra
delle “appartenenze malefiche”: gli amici del bar, quelli del passeggio
giornaliero, quelli delle ubriacature periodiche. In effetti gli erano restati
pochissimi amici, ma assai selezionali. Tanto per cominciare il nostro uomo
selezionava i “conoscenti” dai “veri amici”: dei primi ne aveva a bizzeffe, dei
secondi assai pochi. Questi ultimi erano coloro che lo aiutavano nello sviluppo
dei suoi progetti, quelli che si impegnavano a vendergli i prodotti perché
davvero ci credevano, quelli che nel tempo libero andavano a dargli una mano in
campagna, quelli che lo aiutavano a distinguere le idee fattibili dai sogni
irrealizzabili. Pure il Don prese l’abitudine di andare a fare la spesa da lui,
non disdegnando di prendere in affitto le sue stanze per il periodico raduno di
preghiera e di formazione della comunità.
In
nostro uomo iniziava quindi ad essere famoso anche in parrocchia: dall’iniziale
“ex di Maria”, passando per “il tipo strano che fa cose strane”, stava
diventando l’uomo carismatico che, tra il mendicare raccomandazioni e
l’emigrare al nord, aveva deciso di restare a casa sua e costruirsi un futuro di
tutto rispetto valorizzando tradizione, competenze e sogni. Inutile dire che
Gerardo iniziava a piacere alle tante ragazze in cerca di marito, e
l’interessato non era certo avulso dal rendersene conto. Le donne gli
piacevano, eccome, ma ora che aveva tirato da dentro di sé il meglio, vale a
dire l’abitudine all’autonomia, davvero abiurava fermamente l’idea di dover
fungere da mero finanziatore di benessere altrui. Non era una questione
economica: più che di una donna-femmina (di cui innamorarsi, con cui fare
l’amore e fare figli) egli cercava una donna-compagna, qualcuno che amasse non
solo la sua persona, ma anche il suo impegno, il suo sogno, il suo progetto di
vita.
L’impresa
non era per nulla facile in una città in cui le donne sono educate fin da bambine
a dipendere da un uomo, in cui – col matrimonio – il gentil sesso spesso
“cambia padrone”, passando dal padre al marito senza altra via d’uscita, in cui
il modello di femmina-dipendente è sostenuto dalle stesse madri. Le ragazze,
infatti, facevano a gara per “piacere” al nostro uomo, col fine ultimo (e ben
nascosto) di “sistemarsi”, di “accasarsi”, di “trovare il fesso da cui farsi
mantenere”, così come ogni cozza si avvinghia al suo filare. Gerardo, che
intuiva, amava dirsi spesso questa frase “la
fregatura è come l’AIDS, se la conosci,
la eviti”, preferiva quindi stare da solo – anche perché ci stava bene! –
lasciando al futuro l’incontro con una vera donna-compagna. “Dio vede e provvede” erano le ultime
parole dette da nonno Nicola prima di morire, ed il nostro uomo,
sorridendo, si rimetteva nelle mani di
Nostro Signore. Anche l’amore tra uomo e donna è un fatto di fede, Gerardo lo
sapeva più che bene. E a stare con lui, inventore dell’ “aglio lucano doc”, di
fede ce ne voleva davvero tanta, considerati pure gli effetti cutanei dell’uso
del suo prodotto!
Questa è la storia di Gerardo, di “uno di
noi”, di un lucano che, di fronte alla crisi economica, ha saputo resistere
alla tentazione di nascondersi in mezzo agli altri ed ha scelto di prendere in
mano il proprio destino. Non è un santo, ma come ogni santo sa essere se stesso
di fronte a Dio e di fronte agli uomini. La crisi economica è sempre
un’occasione di cambiamento, un cambio che però non è né “spaziale”
(l’emigrazione al nord), né “adattivo” (lavorare in nero o su raccomandazione,
pur di restare a casa), ma “culturale”. Gerardo ha il coraggio di prendere in
mano la propria vita individuando i punti di forza dell’economia locale e
facendo impresa nel rispetto dell’ambiente e secondo le tradizioni.
Diversamente dal “padrone del nord” egli ama e rispetta la sua terra, investe
sul luogo i propri guadagni ed allarga i propri benefit alla comunità locale,
in primis alla comunità ecclesiale di cui fa parte e da cui trae ispirazione.
Gerardo è una vera provocazione politica e di fede: invece di
sopravvivere, nell’illusione che
capitalisti stranieri gli diano da mangiare, riconoscendo in ciò una trappola
storica e globale (paragonando Basilicata ed America Latina), egli decide di
scegliere la liberazione dal gioco della
dipendenza (economica, ma anche culturale ed affettivo-amorosa) diventando così
un uomo davvero adulto. Benedetta crisi, allora, se ci aiuta a comprendere che
si stava meglio quando si stava peggio, vale a dire che si può vivere al meglio
di sé semplicemente recuperando un diverso modello di sviluppo da quello
nordico-industriale. In fin dei conti i nostri avi, dal brigantaggio del 1800
fino ai cafoni in rivolta nel 1900, con la riforma agraria del dopoguerra e la
contemporanea fuga dei contadini verso le fabbriche del nord, non avrebbero
fatto lo stesso?
Ugo Albano
(Potenza, 1962)